Il parto in anonimato ha aperto negli ultimi anni una controversa questione in tema di conflitto tra diritti fondamentali. E, come sappiamo, il bilanciamento di diritti personalissimi è sempre delicato. In particolare, l’equilibro tra i diritti della madre biologica e quelli del/lla figlio/a sembra infrangersi di fronte all’antinomia costituita dalla privacy della prima e l’accesso alle informazioni sulle proprie origini del/lla secondo/a.

L’adottato/a – come sancito dalla legge n. 149/2001 – ha il diritto, a determinate condizioni, di conoscere l’identità dei genitori naturali. Tale riconoscimento prevede un’eccezione: questa possibilità, ritenuta importante per il processo di costruzione della propria identità, è preclusa nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata (legge 184/1983, art. 28, comma 7).

La tutela dell’anonimato delle donne è stata poi confermata anche dal “Codice privacy” (d.lgs n. 196/2003) che stabilisce:

“il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata avvalendosi della facoltà di cui all’articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento”.

Il diritto (della madre) all’oblio, quindi, prevale su quello del/lla figlio/a.

A partire dal 2013, questa certezza ha iniziato a vacillare.

La Corte Costituzionale (sentenza n. 278/2013), infatti, in seguito alla condanna della Corte europea di Strasburgo (sentenza Godelli c. Italia 2012), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto assoluto di conoscere le proprie origini nel caso di parto in anonimato in quanto cristallizza in modo definitivo e praticamente irreversibile la scelta della madre di apporre il segreto sulla propria identità. 

La censura è rivolta alla rigidità della norma, che invece dovrebbe mirare a un bilanciamento concreto di interessi parimenti importanti. La Consulta rimanda poi al Legislatore il difficile compito di disciplinare la possibilità che il/la giudice, su richiesta del/lla figlio/a, interpelli la madre – nel modo più discreto possibile – per verificare l’attualità della scelta compiuta in passato. 

Anche la Cassazione si è espressa più volte (nel 2016 e più recentemente nel 2020) a favore della revocabilità dell’anonimato: l’interesse e il diritto a rimanere segreta termina alla morte della donna stessa. Se la madre è defunta, dunque, deve essere privilegiata la richiesta del/lla figlio/a non riconosciuto/a alla nascita.

Nell’attesa che il vuoto normativo venga colmato, le prassi nei tribunali italiani rimangono variegate.

Non è difficile immaginare le conseguenze sulla vita delle donne.

Numerose sono le testimonianze* che descrivono l’angoscia di coloro che temono che il passato travolga il proprio presente e le persone che ormai ne fanno parte. Come riportato dall’Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie, molte donne si sentono ingannate, tradite e punite per aver compiuto una scelta legittima e responsabile.

Troverete l’intera campagna informativa sui nostri social (Facebook e Instagram).

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https://www.aibi.it/ita/images/A-deputati-su-appello-R.pdf

http://www.anfaa.it/wp-content/uploads/2017/02/art.-Santanera.pdf


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